Il 9 marzo del 2020 sarà ricordato nel nostro piccolo come una data storica. Il Covid entra nelle nostre vite rinchiudendoci in casa o spegnendo in molti troppi casi le vite dei nostri cari.
Giornali, tv, radio e social diventano terreno di condivisione di notizie, di allarmi, di fake news, di ansia ed esasperazione della gente.
In quei giorni non ci si scontra su novax e provax ma tra chi credeva che il virus esistesse, sui complottisti, sugli scettici e sugli increduli.
Tra i servizi essenziali il presidente del Consiglio Conte reputa opportuno e doveroso inserire nel pannello delle cose da non chiudere le edicole, l’informazione.
Si riconosce il valore non solo costituzionale e democratico ma anche emergenziale dell’informazione.
Chi la produce per i cittadini ha bisogno di tenere le serrande alzate, di sollevarle e di non rinchiudersi a trecento metri di distanza.
Ma dietro chi produce informazione per i cittadini c’è un consistente drappello di professionisti che lavora per la comunicazione istituzionale, sanitaria e scientifica pronti a fare la loro parte.
In qualche modo finalmente la macchina della sanità emerge da quello stato di invisibile accompagnamento a cui molti di voi siete dediti nelle vostre quotidiane attività.
Immagino che il rimbalzo e lo stress sopportato sia stato importante come può essere stato tremendo leggere cose ovvie o imbarazzanti dai professionisti a volte improvvisati e riciclati da altri settori della macchina dell’informazione che avete conosciuto come dirimpettai.
Ecco quando parliamo di deontologia e di ruolo del professionista è opportuno anche riferirsi a questa data.
Un’altra potrebbe essere quella della legge 150 sugli uffici stampa pubblici, il 7 giugno, che impone la presenza di giornalisti professionisti e pubblicisti iscritti all’albo all’interno del perimetro delle pubbliche amministrazioni.
Tuttavia questa opportuna e doverosa specifica che dovrebbe motivare l’Ordine a richiamarne l’esistenza in vita ovunque ci sia questa possibilità, ovunque riscontri irregolarità ovunque possa far nascere banalmente lavoro dalle irregolarità, non deve farci nascondere l’importanza di questo passaggio.
Perché oltre che per diritto anche nei fatti abbiamo visto la differenza tra professionismo e presappochismo, tra rispetto sostanziale dei fatti e cialtronismo, tra onniscienza vuota e scienza viva.
Ed ecco perchè a garantire che a prevalere sia il fattore positivo deve essere un professionista solido.
Diciamo che qui la presunzione di innocenza va a chi per dovere e per obbligo e per deontologia professionale deve rispettare alcune regole. E la casa delle regole resta l’Ordine dei giornalisti.
A questo però dobbiamo affiancare la continua innovazione sui mezzi e sul lavoro sul prodotto tipico di chi non si arrende all’evidenza che una volta è per sempre, che svolto l’esame professionale non c’è altro da apprendere.
Stampa Romana da un po’ di tempo guida una pattuglia di colleghi che non vuole arrendersi alla crisi e all’evidenza che il meglio è alle nostre spalle ma sa anche perfettamente che per avere chances per il futuro, per un futuro così complesso, sia necessario lavorare sui mezzi e sulle competenze professionali, non escludere nulla dal proprio armamentario visuale, lavorare in continuazione sulla formazione.
Non ricordo ormai quanti corsi professionali Stampa Romana ha dedicato ai nuovi social, alle piattaforme. Credo siamo stati l’unica associazione sindacale a fare un corso su tik tok.
Produci informazione e produci comunicazione dove la gente vive, sogna, riposa, smanetta, calcola, dialoga.
Non c’è altro modo per dare un ruolo e prima ancora un senso alla nostra professione.
Vale anche per quelle aree come la vostra in cui ci deve essere una maggiore cura e un maggiore approfondimento nell’attenzione alla verità e nel rigoroso rispetto.
Qui è in gioco la salute e la vita delle persone, non si scherza.
E se oggi possiamo dire che qui nel Lazio il 93 per cento delle persone si è vaccinato forse qualche merito lo ha tutta la macchina dell’informazione e della comunicazione che ha funzionato.
Tutto oro quello che luccica? Niente affatto.
Di questi tempi lo scorso anno Stampa Romana ha organizzato un webinar rivolto proprio ai professionisti dell’informazione Covid che ha sottolineato l’esasperazione e gli eccessi di una sovrapproduzione di notizie. Siamo stati tra i primi a parlare di infodemia, termine che è diventato terreno comune.
Una malattia dell’informazione che ci porta a essere tutti virologi ieri e oggi tutti esperti di Nato e Patto di Varsavia, di Ucraina e Russia.
Una brutta malattia professionale perchè non si può vivere sempre sulla montagna di informazione svilite così a chiacchiera di sottofondo; bisogna scendere di più e meglio sulla qualità dell’informazione dove invece è possibile creare una relazione virtuosa con i cittadini.
Mi piace ricordare che il giornalismo di questo secolo non è solo un giornalismo di notizie ma un giornalismo di relazione e conversazione con i cittadini.
Non possiamo più dire messa voltando le spalle ai fedeli, non c’è la cattedra e il pulpito, si lavora anche alla pari con i cittadini, rivendicando non l’autorità della professione ma l’autorevolezza.
Un modo concreto per credere alla funzione sociale e sindacale e ordinistica del nostro mestiere e per un patto di lealtà che ci deve connettere ai cittadini.