FORUM ENTI LOCALI 15-12-23 ROMA

Federsanità

L’integrazione socio-sanitaria rappresenta un approccio che mira a coordinare e combinare servizi
sanitari e servizi sociali al fine di fornire un migliore supporto e assistenza alle persone in situazioni
di fragilità o bisogno. Questo approccio riconosce che le esigenze di salute di un individuo sono
strettamente connesse al loro contesto sociale, economico e ambientale. E’ ormai indubbio che
integrare servizi sanitari e sociali può portare a migliori risultati per i pazienti e una maggiore
sostenibilità del sistema nel suo complesso.
Nei sistemi di integrazione socio-sanitaria vengono coinvolti una serie di attori, tra cui operatori
sanitari, operatori sociali, professionisti della salute mentale, assistenti sociali, caregiver e altre
figure operanti nella cura e nell’assistenza. L’obiettivo è quello di superare le barriere tra i diversi
settori e di facilitare una risposta coordinata alle esigenze complesse degli individui.
Ci sono diversi modelli di integrazione socio-sanitaria, che variano in base al contesto e alle
esigenze specifiche della popolazione servita. Alcuni di questi modelli includono:

  1. Team integrati: in questo modello, i professionisti sanitari e sociali lavorano insieme come un
    team interdisciplinare per fornire un’assistenza coordinata. Questo approccio è particolarmente
    utile per i pazienti con bisogni complessi che richiedono un supporto multifunzionale.
  2. Case Manager: in questo modello, un case manager viene assegnato a un paziente per
    coordinare il loro percorso di cura e assistenza sociale. Il case manager diventa un punto di
    riferimento per il paziente e i familiari, aiutandoli ad orientarsi tra i servizi sanitari e sociali
    disponibili.
  3. Cure integrate: questo approccio coinvolge la combinazione di servizi sanitari e servizi sociali
    all’interno di un’unica struttura o organizzazione. Ad esempio, un centro di salute integrato
    potrebbe offrire servizi medici, servizi di salute mentale e supporto sociale sotto lo stesso tetto.

I benefici di un sistema di integrazione socio-sanitaria sono molteplici, i più rilevanti sicuramente
sono:

  1. Migliore coordinamento della cura: integrare i servizi sanitari e sociali può aiutare a garantire
    che i pazienti vengano curati da un sistema più omogeneo, riducendo il rischio di duplicazioni o di
    mancanza di comunicazione tra diversi provider.
  2. Migliore accesso ai servizi: permettendo ai pazienti di accedere a una gamma più ampia di
    servizi, si soddisfano le loro esigenze complesse in modo più efficace.
  3. Migliori risultati per i pazienti in termini di salute fisica e mentale, qualità della vita e
    autogestione delle proprie condizioni.
  4. Maggiore efficienza del sistema riducendo gli sprechi e ottimizzando l’utilizzo delle risorse
    disponibili.
  5. Migliore esperienza del paziente: un’assistenza integrata e coordinata può portare a
    un’esperienza complessiva più positiva per i pazienti e le loro famiglie, riducendo lo stress
    associato alla navigazione tra diversi servizi e provider.

Tuttavia, l’integrazione socio-sanitaria può anche presentare sfide e ostacoli. Alcune di queste
sfide includono la necessità di superare le differenze culturali e organizzative tra i diversi settori,
garantire la privacy e la sicurezza dei dati dei pazienti e coinvolgere attivamente i pazienti e le loro
famiglie nel processo decisionale.
Per affrontare queste sfide, sono necessarie strategie e approcci specifici, come la formazione
interprofessionale degli operatori sanitari e sociali, lo sviluppo di sistemi informativi condivisi e la
promozione di un maggiore coinvolgimento delle comunità locali. Le organizzazioni di
volontariato, le reti di supporto tra pari e le risorse culturali, possono svolgere un ruolo

fondamentale nel sostenere l’integrazione socio-sanitaria e nel fornire un supporto supplementare
ai servizi formali.
Possiamo dunque affermare con sicurezza che l’integrazione socio-sanitaria rappresenta un
approccio promettente per migliorare la cura e l’assistenza per le persone con esigenze complesse
ma necessita di una collaborazione più stretta tra i settori sanitario e sociale.
La medicina territoriale, i comuni, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), le case della
comunità e gli ospedali di prossimità sono tutti elementi cruciali per questa collaborazione e per il
futuro della sanità territoriale. Questi concetti riflettono un cambiamento di approccio nella
gestione della salute e mirano a migliorare l’accesso ai servizi sanitari e a garantire un trattamento
più efficace per i pazienti.
La medicina territoriale si concentra sull’erogazione di cure primarie e preventive a livello locale,
con un focus sull’assistenza sanitaria di base fornita direttamente nella comunità. Questo
approccio cerca di migliorare l’accesso ai servizi sanitari per tutti, riducendo al contempo la
dipendenza dai servizi ospedalieri per le cure non urgenti. La promozione della medicina
territoriale può portare a una maggiore sostenibilità del sistema sanitario, riducendo i costi e
migliorando l’efficienza complessiva.
I comuni giocano un ruolo fondamentale nella promozione della medicina territoriale e nel fornire
servizi sanitari di base alla popolazione locale. Infatti, possono svolgere un ruolo attivo nel
supportare le iniziative legate alla medicina territoriale, ad esempio promuovendo stili di vita sani,
offrendo servizi di base di assistenza sanitaria e collaborando con le autorità sanitarie per
migliorare l’accesso alle cure e per favorire la deospedalizzazione.
Tuttavia, il Rapporto sui Servizi socio-sanitari dei Comuni italiani, elaborato da Federsanità e Ifel
(Istituto per la Finanza e l’Economia Locale), sulla base dei dati Istat 2023, relativi all’anno 2020
mette in evidenza una serie di dati preoccupanti sul versante dell’integrazione socio-sanitaria.
Dal 2013 al 2020 la spesa sociale dei comuni è aumentata del 14,4% ed è aumentata ancora nel
2020 in modo significativo per fronteggiare i nuovi bisogni assistenziali derivanti dall’emergenza
sanitaria esplosa con il Covid-19 e per la conseguente crisi economica e sociale, raggiungendo i
7,85 miliardi di euro, il 4,3% in più rispetto al 2019.

Nel 2020 la spesa dei comuni per i servizi sociali per abitante è pari a 132 euro (era di 114 euro pro
capite nel 2013) con differenze molto ampie a livello di ripartizione geografica: nel Mezzogiorno è
pari a 87 euro, circa la metà del dato registrato al Nord (161 euro).
Inoltre, dal 2013 al 2020 si rileva un +95% della spesa dei comuni per i servizi sociali nell’area
«povertà, disagio adulti e senza dimora» (effetto Covid: +73% solo nel passaggio dal 2019 al 2020).
La spesa è destinata prevalentemente ai minori e alle famiglie con figli (37%), alle persone con
disabilità (25%) e agli anziani (16%), ossia ai residenti che abbiano compiuto almeno 65 anni di età.
I dati del rapporto mettono in luce anche come, nell’arco di un decennio, sia variata la
componente di spesa sociale: a livello complessivo la variazione percentuale della spesa è pari al
14,4% (rispetto al 2013), ma varia da un minimo del -33,5%, rispetto al 2013, nel caso delle
dipendenze da alcol e droga, fino ad un massimo di circa il +95% per la povertà ed il disagio di
adulti e senza dimora, Si rileva, invece, un preoccupante decremento della spesa per anziani pari al
-7,1%, un dato in controtendenza con il progressivo invecchiamento della popolazione in Italia.
La fetta più importante della spesa è assorbita da famiglia e minori, seguita dalla disabilità.
In questa situazione il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta un’opportunità
per investire nell’innovazione e nelle infrastrutture sanitarie, compresi i progetti legati alla
medicina territoriale, alle case della comunità e agli ospedali di prossimità. Il PNRR ha tracciato
nelle Missioni 5 e 6 una mappa puntuale degli snodi necessari perché si possa gestire una
popolazione in salute. Quello principale è l’unificazione dei linguaggi e delle competenze mettendo
al centro il cittadino nelle sue diverse fasi dell’esistenza e nella sua collocazione abitativa.
Attraverso il Piano, i governi nazionali possono canalizzare risorse verso iniziative volte a
potenziare la sanità territoriale, migliorando l’accesso ai servizi sanitari e promuovendo modelli di
assistenza integrata che coinvolgono sia i servizi sanitari che sociali.
Il PNRR potrebbe essere anche un’occasione per perequare il Nord ed il Sud e lavorare in
particolare su diversi aspetti. Particolare attenzione andrebbe dedicata a colmare l’asimmetria
attuale del Sud su tutte le infrastrutture, anche quelle sociali; diminuire l’attuale difficoltà di
integrare l’obbiettivo territoriale con quelli specifici e abbattere i tempi di realizzazione che sono
molto più ampi nel mezzogiorno. Inoltre, sarebbe necessario un focus sul contrasto
dell’andamento dell’emigrazione sanitaria extra-regionale, in particolare nelle Regioni più esposte
al fenomeno che sono Campania, Calabria e Sicilia con il 56% del totale dei ricoveri extra-regione

del mezzogiorno, contro la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Veneto che presentano i valori più
bassi dell’indicatore e sono le regioni attrattive di utenza dal Sud Italia.
Anche contrastare il problema dell’invecchiamento della popolazione è da attenzionare perché è
un fenomeno molto più grave nel mezzogiorno che nel resto d’Italia. La popolazione in calo
progressivo è, nel lungo termine, più forte al Sud e nelle aree interne, nel mezzogiorno c’è un
marcato processo di invecchiamento che supera quello del Nord e la crisi demografica è più ampia
al Sud con una diminuzione di 7 punti percentuali delle coppie con un figlio al di sotto dei 20 anni.
Infine, ma non meno importante da affrontare, il problema della carenza del personale sanitario e
l’incremento del fenomeno delle dimissioni. Nel 2021 la media nazionale dei medici dipendenti
che hanno deciso di licenziarsi è stata del 2,9%, percentuale abbondantemente superata dalla
Calabria, 3.8%, e dalla Sicilia, 5.18%. La Puglia passa dal 2.04% al 3.29 %.
A questi fenomeni, si deve aggiungere il cronicizzarsi della carenza di personale sanitario,
soprattutto nei reparti di emergenza/urgenza, e lo scarso indice di gradimento che riscontrano le
scuole di specializzazione del settore. Tutto ciò ha spinto le aziende a forme di ingaggio atipiche,
attraverso affidamenti di appalti esterni, talvolta di interi reparti, con costi crescenti, contabilizzati
non più tra i costi del personale, ma tra quelli di beni e servizi.
La carenza di medici ed infermieri rappresenta una vera e propria emergenza del personale
sanitario che ha origini lontane e a cui hanno concorso numerosi fattori, non ultimi un’errata
valutazione e programmazione nel tempo dei fabbisogni, con il crescente innalzamento della
relativa età media del personale e un’eccessiva rigidità dei limiti della spesa del personale
dipendente, che ha reso nel tempo scarsamente attrattivo il lavoro prestato presso gli enti e le
aziende del sistema sanitario nazionale, con un flusso in uscita verso i Paesi esteri di circa 31.600
professionisti, tra medici e infermieri, nel periodo 2001-2021.
La pandemia ha reso maggiormente evidenti le criticità, con un incremento del fenomeno delle
dimissioni per cause diverse dai pensionamenti e dall’esodo volontario dal Servizio sanitario
nazionale. Infatti, dal 2019 al 2021 hanno abbandonato l’ospedale 8.000 camici bianchi per
dimissioni volontarie e scadenza del contratto a tempo determinato e 12.645 per pensionamenti,
decessi e invalidità al 100%.

Guardando un quadro più generale la recente crisi pandemica ha messo a nudo le falle di un
Servizio Sanitario Nazionale improntato ad una concezione ospedaliero-centrica della tutela della
salute, con la sostanziale assenza di una rete assistenziale territoriale.
Tale modello organizzativo, frutto di una logica prettamente aziendalistica, non ha tutelato le
necessità assistenziali delle popolazioni, costrette ad accedere alle strutture ospedaliere anche per
patologie a bassa intensità di cura.
Nelle Regioni storicamente deprivate sul piano dell’assistenza sanitaria, viene avvertita, oltre
all’assenza di una valida rete territoriale, anche la mancanza di una confacente rete ospedaliera di
base e dell’emergenza/urgenza, rendendo irrealizzato l’obiettivo della continuità ospedale-
territorio.
È emersa, pertanto, successivamente all’evento pandemico, l’esigenza di una rifondazione
dell’assistenza sanitaria territoriale, con la programmazione delle “Reti di Prossimità”, quali
strutture assistenziali intermedie, al fine di creare un sistema più vicino ai cittadini, in grado di
intercettarne le esigenze minimali.
In tale contesto programmatico, un ruolo importante è riservato alla Telemedicina, strumento di
grande supporto, soprattutto a favore dei pazienti cronici. Le farmacie, sia pubbliche che
convenzionate, dovranno costituire, in una logica assistenziale di prossimità, un vero e proprio
“avamposto”.
Il farmacista dovrà essere il referente dell’uso sicuro ed efficace dei farmaci facenti parte del
programma terapeutico dell’assistito, in termini di interazione farmacologica, dosaggio e
farmacovigilanza. Le farmacie convenzionate, in quanto espressione capillare dei territori,
dovranno assumere il ruolo, sotto il profilo giuridico, di presidi di pubblico servizio. La Rete
Assistenziale di Prossimità, che vede coinvolti i Medici di Medicina Generale, i Pediatri di Libera
Scelta, i Medici di Continuità Assistenziale e di Medicina dei Servizi, gli Infermieri di famiglia, gli
infermieri di comunità, la rete farmaceutica, pubblica e privata convenzionata, è chiamata, in
estrema sintesi, a rendere concreto e fruibile l’obiettivo di un servizio sanitario integrato e
solidale, vicino alle comunità.

Resta evidente, peraltro, come la completa realizzazione di una rete assistenziale di prossimità non
possa, in alcun caso, prescindere, in una logica di concreta integrazione ospedale-territorio, dalla

implementazione di una valida rete ospedaliera di base e dell’emergenza/urgenza, in grado di
garantire il soddisfacimento tempestivo delle esigenze del paziente critico.
Le case della comunità costituiscono un altro elemento chiave della sanità territoriale, queste
strutture offrono un ambiente di cura alternativo alla degenza ospedaliera per i pazienti che
necessitano di assistenza a lungo termine o di cure palliative. Prevedono un modello di intervento
multidisciplinare e al suo interno si troveranno équipe multiprofessionali composte da Medici di
Medicina Generale, Pediatri di Libera Scelta, Specialisti Ambulatoriali, Infermieri e Psicologi. Sono
progettate per offrire un contesto più familiare e confortevole rispetto all’ospedale, consentendo
ai pazienti di ricevere cure di alta qualità in un ambiente più vicino alla propria casa e alla propria
comunità.
Il decreto distingue due modelli organizzativi per le Case della Comunità: le Case della Comunità
hub e le Case della Comunità spoke. Le prime sono le strutture di riferimento, dovranno essere
presenti ogni 40.000-50.000 abitanti e articoleranno la loro azione in modo capillare nel territorio
attraverso le Case della Comunità spoke e gli ambulatori dei Medici di Medicina Generale (MMG) e
dei Pediatri di Libera Scelta (PLS).
Gli ospedali di prossimità/comunità (odc) sono un’altra componente importante della sanità
territoriale. Questi ospedali, spesso di dimensioni più contenute rispetto agli ospedali tradizionali,
sono progettati per fornire una gamma di servizi sanitari di base e specializzati a livello locale.
Grazie a questa loro natura, possono svolgere un ruolo cruciale nel garantire un accesso più equo
e vicino alla popolazione, riducendo la necessità di viaggi lunghi e costosi per ricevere cure
specialistiche.
Gli OdC sono presidi che svolgono una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero
ospedaliero. Hanno l’obiettivo di evitare ricoveri impropri e di favorire dimissioni protette in
luoghi, prossimi al domicilio, più idonei al prevalere di fabbisogni assistenziali, di stabilizzazione
clinica, del recupero funzionale e dell’autonomia.
In questo quadro, ci apprestiamo a mettere in campo gli strumenti previsti dal DM 77 sulla nuova
sanità territoriale, seppure rivisti numericamente al ribasso a causa della rimodulazione del PNRR,
che presuppongono una forte integrazione con l’assistenza sociale offerta dai Comuni. Infatti, per
evitare il fenomeno delle sliding door della fragilità sociale verso l’assistenza sanitaria che,
comunque, non è in grado di fornire una presa in carico integrale, allargata alle esigenze sociali del
paziente fragile, occorrono processi integrati e finanziamenti dedicati alla non autosufficienza e

alla disabilità. Il DM 77, prevede strumenti nuovi di integrazione: il Punto Unico di Accesso presso
le Case di comunità, dove avverrà la valutazione multidimensionale congiunta tra aziende sanitarie
ed enti locali per le persone non autosufficienti; le Centrali Operative Territoriali, strumento
fondamentale di coordinamento della presa in carico della persona e raccordo tra servizi e
professionisti coinvolti nei diversi setting assistenziali, sanitari e sociosanitari, in dialogo con la rete
dell’emergenza urgenza; il 116117, per ogni esigenza sanitaria e socio-sanitaria a bassa intensità
assistenziale; l’assistenza domiciliare integrata e la teleassistenza, i cui fondi sono stati
incrementati a seguito della rimodulazione del PNRR, vero punto di svolta verso la sostenibilità del
sistema. L’integrazione sociosanitaria si avvarrà’ di questi strumenti e processi innovativi, orientata
da logiche di integrazione e multi professionalità, ma non potrà prescindere dall’entità dei
finanziamenti disponibili sui territori.
Si può fermamente affermare, quindi che, in termini di prospettive future, la sanità territoriale
offre l’opportunità di promuovere una maggiore integrazione tra i servizi sanitari e sociali, favorire
la prevenzione e la gestione delle malattie croniche e migliorare l’accesso alle cure per le
popolazioni più vulnerabili. Attraverso l’implementazione di modelli innovativi di assistenza
sanitaria, sostenuti da investimenti mirati e da politiche pubbliche adeguate, è possibile
promuovere una sanità territoriale più sostenibile, inclusiva ed efficace.
L’integrazione e la collaborazione tra i diversi attori del sistema sanitario, compresi medici,
infermieri, operatori sociali, autorità locali e comunità, sono fondamentali per il successo della
sanità territoriale. Inoltre, è essenziale promuovere un approccio centrato sul paziente, che tenga
conto delle esigenze e delle preferenze individuali nel fornire cure e gestione delle malattie.
Quali sono i cambiamenti necessari per realizzare appieno il potenziale della sanità territoriale e
per uno sviluppo tecnologico e sostenibile? Sicuramente garantire la formazione dei professionisti
sanitari e valorizzare il ruolo delle comunità nella promozione della salute e nella gestione delle
malattie. Per le iniziative legate alla sanità territoriale, al fine di assicurare la loro sostenibilità e
continuità nel lungo termine bisogna garantire un adeguato finanziamento e sostegno politico.
È necessario lavorare anche sulla riforma delle cure primarie, inclusa la medicina di continuità
assistenziale, sulla definizione dei ruoli professionali e dei setting sul territorio, in raccordo con un
sistema ad oggi ospedalocentrico e sulla diffusione di uno skill mix change (miglior mix di
professionalità) preceduto ed accompagnato da processi formativi. Di fondamentale importanza è

attuare una transizione digitale ed interoperabilità dei sistemi informatici con l’implementazione
dell’utilizzo del FSE, della piattaforma unica di teleassistenza e dei servizi connessi.
Per realizzare tutti questi cambiamenti sarebbe necessaria una terapia di attacco esterno alla
sanità basata su tutta una serie di azioni ben precise. Innanzitutto il finanziamento strutturale dei
LEPS (Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali) che consenta un investimento omogeneo in tutto il
Paese nei servizi sociali territoriali, per promuovere una reale integrazione socio-sanitaria.
Sono necessarie risorse sufficienti per l’attuazione del Piano della non autosufficienza previsto
dalla legge 33 del 2023 con la realizzazione, prevista dalla legge delega, di un sistema nazionale
che monitori la presa in carico e l’emanazione dei decreti attuativi della legge delega sulla
disabilità (approvato primo decreto dal CDM). Sarebbe auspicabile anche l’attuazione di un
impianto di servizi di sostegno alla famiglia di incoraggiamento alla natalità e di programmi
scolastici che includano la promozione di stili di vita sani.
In conclusione, l’integrazione socio-sanitaria, la medicina territoriale, i comuni, il PNRR, le case
della comunità e gli ospedali di prossimità rappresentano elementi chiave per l’evoluzione della
sanità territoriale. Investire in questi settori può portare a una maggiore equità nell’accesso ai
servizi sanitari, una migliore gestione delle malattie croniche, una maggiore sostenibilità del
sistema sanitario e una maggiore soddisfazione dei pazienti. Promuovere la sanità territoriale
richiede un impegno comune da parte di governi, autorità sanitarie, professionisti sanitari e
comunità, ma i benefici potenziali sono enormi e possono migliorare significativamente la qualità
della vita delle persone.
Come si può avviare questo processo di cambiamento e come si può comunicare? Sicuramente
moltiplicando gli effetti e quindi l’efficacia delle azioni previste dal Piano Nazionale Ripresa e
Resilienza ma anche iniziando a definire i cardini di un Piano di comunicazione, da declinare nei
territori, che permetta di coinvolgere operatori, istituzioni, associazioni di categoria e cittadini in
questa grande impresa.